Ecco come nella maggior parte dei casi viene definito il bambino, anzi il feto, negli anni di studi in ostetricia.
Corpo mobile.
Ovvero un qualcosa che viene spostato e spinto da qualcos’altro, ovvero il movimento uterino.
Corpo.
Privatizzandolo così di ogni altro aspetto, come quello della sua anima.
Mobile.
Privatizzandolo così della sua intenzione al movimento.
Della sua capacità, della sua competenza a scegliere come e quando farlo.
Questa definizione nonostante l’aggettivo rende il bambino statico.
In balia degli eventi.
Debole, se così vogliamo dire.
Per quanto mi riguarda io li ho sempre chiamati gli abitanti della pancia.
Perché questo fanno.
La abitano.
Con intento.
Con il corpo e le emozioni.
Sono abitanti che scelgono, che maturano, che interagiscono.
Sono quei famosi bambini, che poi nell’immediato dopo parto, improvvisamente sono guidati da un istinto infallibile.
Non vi sembra strano?
Improvvisamente sanno attaccarsi al seno, ciucciare, dichiarare i propri bisogni e riconoscere “il suono” della propria mamma.
Ecco.
Questa è la classica visione di un mondo che separa.
Mamma e bambino.
Mamma, bambino e compagno.
Triade e famiglia.
Famiglia e ambiente in cui è immersa.
E così gli eventi della nascita si susseguono a cassetti che si aprono e si chiudono.
Apro la gravidanza.
La chiudo quando entro in travaglio.
Apro il cassetto del parto.
Lo chiudo quando nasce il bimbo.
Apro il dopo parto.
E lo chiudo chissà quando e chissà come.
Il bimbo che hai in pancia invece è lo stesso bimbo che vorrà nascere, ed è lo stesso che nascerà.
Ci sono altri valori da controllare in gravidanza oltre le misure ecografiche, che sono altrettanto importanti.
E forse non sono neanche da “controllare”.
Ma da riconoscere.
Il valore del percorso.
Il valore del bimbo.
Il valore delle sue infinite competenze.
Il valore dei suoi movimenti.
Delle sue decisioni.
Del suo adattamento.
Delle sue scelte.
Il valore dell’incontro.
Del legame.
Dell’unicità con il quale questo avviene.
Non è un corpo mobile.
È la vita che ti abita dentro.