Era notte.
Una notte di passaggio.
Come quella appena passata.
Una notte come due anni fa.
Una notte in cui ho pensato tutto e nulla.
In cui ho sentito quella spiazzante emozione di capire che c’ero.
Di nuovo.
Mi ricordo che mi sono chiusa nel bagno.
Ho accarezzato la pancia.
Ho aperto la finestra.
Ho respirato.
Per la mia ultima e prima volta.
Di nuovo.
Ho chiamato mia madre.
Mi sono chinata su Anna.
E bagnandole il viso di lacrime l’ho baciata.
Con la paura di perderla.
Non fisicamente.
Con quella fitta al cuore di sapere che non sarebbe mai stato più quello.
Ma altro.
Un altro in cui avevo fiducia.
Ma paura.
Poi sola con il mio compagno mi sono spogliata.
Sono stata nuda sotto l’acqua, piangendo per la gioia di iniziare il viaggio.
Di nuovo.
Di scoprire chi aveva abitato in modo così meticoloso il mio corpo.
La mia anima.
Ho lasciato che mi asciugasse.
Che mi vestisse.
Che avvertisse la mia ostetrica.
La nostra famiglia.
Le mie amiche.
Ho lasciato che la mia mente viaggiasse verso il nostro incontro.
Così ci siamo incamminati verso il nostro secondo nido.
Non ricordo nulla di quella notte.
Nulla se non tutto ciò che oggi voglio raccontarti.
Ricordo il mio corpo caldo.
Il mio respiro profondo.
Occhi che si incontrano.
Mani che mi massaggiano.
Parole che mi direzionano.
Ricordo la musica.
Le lacrime.
Ricordo quando sono scappata.
E quando sono tornata.
Ricordo di averti chiamato ancora ignara del tuo sesso.
Ricordo il dolore.
Il cambiamento.
L’andate incontro a ciò che non avrei voluto.
La fatica di essermi delusa.
Di nuovo.
Poi però ricordo che siamo rimaste nella tempesta da sole.
E li, davvero, ho sentito qualcosa di unico.
Che tu non mi davi un’altra scelta se non quella di voler nascere attraverso e attraversando il mio corpo.
Non ti sei fermata.
Nonostante tutto.
Tu, amore mio, lo hai fatto da sola. Chiedendomi solo di essere ciò che volevo essere.
Un corpo appeso alla vita.
E li ho percepito che non ero io a far nascere te.
Ma tu a far nascere me.
E così, senza aspettare un’altra onda, ti ho spinta fuori.
Sei sguillata tra le mie gambe.
Calda.
Morbida.
Improvvisamente carnosa.
E mi sono scordata tutto in quel momento.
Tutto.
Tranne una cosa.
Che eri proprio tu.
Ti ho riconosciuta subito.
E come un felino ti ho presa strappandoti da chi invece voleva controllarti meglio.
Mi sono alzata con la schiena sudata e ti ho chiamata.
“Alice”
“Ti chiami Alice”
“Piacere, io sono la tua mamma”
E ricordo il calore del tuo corpo.
La voglia di darti il seno.
Di sentire la tua bocca succhiarmi l’anima insieme al colostro.
Sentivo così tanto amore che avevo dolore ovunque.
Come se fosse troppo.
Così sei nata.
Al suon di “chi me lo ha fatto fare”.
Tu.
Me lo hai fatto fare tu.
Trentatré anni fa mi è stata donata una vita da mia madre.
Quattro anni e mezzo fa me ne è stata donata un’altra dalla mia prima figlia.
E due anni fa un‘altra ancora.
Da te.
Alice.
Conserva per sempre quella caparbietà.
Quello sguardo che vede lontano.
Quella dolcezza nell’appoggiare la testa nella curvatura del collo e sospirare un po’.
Oggi lo farò io con te.